Ripensare la narrazione delle opere all’interno dei musei

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La mostra “slavery” e la nuova narrazione delle opere al Rijksmuseum

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Frame dal trailer della mostra “Slavery: ten true stories”
Credit: Rijksmuseum

Il 25 marzo si celebra la Giornata internazionale in ricordo delle vittime di schiavitù e della tratta transatlantica degli schiavi. Istituita nel 2007 dalle Nazioni Unite, la giornata è stata introdotta per commemorare le vittime di un passato coloniale atroce, basato sullo schiavismo per mantenere la prosperità e la ricchezza dei paesi europei.

Come abbiamo avuto modo di parlare in un precedente articolo del magazine, fare i conti con il nostro passato non è semplice e sviluppare un dialogo proficuo con la nostra Storia è indispensabile per lo sviluppo di una società in continua evoluzione.

Le istituzioni culturali – custodi della nostra cultura – sono chiamate ad analizzare e mettere in continua discussione le opere e i manufatti al loro interno per poter conoscere il nostro passato e far luce sui valori, la libertà e l’etica che guidavano i nostri antenati.

A questo proposito il Rijksmuseum ha avviato nel 2017 un’analisi critica sulle opere all’interno della sua collezione. Da questo lavoro durato quattro anni, oltre alla rimozione di termini obsoleti e razzisti è stata curata una mostra intitolata “Slavery” ed è stata avviata una riorganizzazione delle didascalie di alcune opere d’arte presenti nel museo.

L’emergere di una nuova narrazione: una storia che non può essere nascosta

Secondo gli storici del Rijksmuseum, tra il XVII secolo e il XIX secolo, l’Olanda ha ridotto in schiavitù più di un milione di persone, acquistandole presso le postazioni commerciali gestite dalle compagnie in Africa e in Asia e trasportandole in massa attraverso gli oceani, creando migrazioni forzate su larga scala.

Il Rijksmuseum di Amsterdam, fondato nel 1885, deve le sue opere alle collezioni private dei benestanti di quella società olandese. Attraverso questi lasciti, il museo era tenuto a raccontare la grandezza, la ricchezza e la prosperità della storia del Paese.

La veicolazione di questo unico messaggio da parte delle opere d’arte e degli oggetti nel museo, ha gettato ombra sulle vicende e prospettive di alcune storie di schiavitù che fino ad ora non erano state raccontate. 

Fin dalla loro fondazione, le istituzioni museali non hanno conservato intenzionalmente gli oggetti legati alle vicende coloniali. Eppure, le stesse opere del museo olandese che hanno mostrato la grandezza dell’Olanda, hanno custodito silenziosamente alcuni flebili ricordi di individui ridotti in schiavitù per mano olandese.

La mostra “Slavery: ten true stories” e l’aggiornamento di settantasette didascalie

Dal 2017 i curatori del Rijksmuseum hanno rivalutato le storie incomplete dietro alcuni manufatti nella collezione permanente e hanno iniziato un nuovo percorso curatoriale con l’obiettivo di ricollocare ciascun oggetto nel contesto storico più accurato, raccontando anche la storia del loro passato coloniale fino ad allora trascurato.

La ricostruzione storica di queste vicende ha condotto alla creazione di una seconda didascalia informativa a settantasette oggetti presenti all’interno del museo e all’allestimento di una mostra temporanea per mostrare le trame nascoste delle opere custodite nelle sale.

Nel 2021 è stata così aperta al pubblico la mostra slavery, curata da Eveline Sint Nicolaas e Valika Smeulders, la quale ha mostrato il legame indissolubile di alcune delle opere presenti nella collezione permanente del Rijksmuseum con il passato schiavista dei Paesi Bassi. 

Attraverso alcuni oggetti della collezione legati a dieci storie di persone che hanno vissuto il periodo di schiavitù, la mostra ha introdotto più di due secoli di partecipazione olandese al commercio degli schiavi.

Le opere presentate in mostra sono riuscite a raccontare – grazie all’ausilio delle nuove didascalie e dell’audioguida – dieci storie vere di persone legate alla storia olandese della schiavitù che non avevano trovato fino ad allora spazio all’interno del museo.

Attraverso fonti orali, poesie e musica, per esempio, è stata raccontata la storia di Paulus Maurus, domestico di una famiglia benestante dell’Aia a cui era richiesto di indossare un collare di ottone – entrato nella collezione del museo nel 1881 – perché di proprietà del conte di Nassau La Lecq.

Oppure è stato raccontato il significato delle perline blu per i discendenti degli schiavi a Sint Maarten. In questa colonia oladese nei Caraibi, gli schiavi non ricevevano soldi per il loro lavoro, bensì perline blu, unici oggetti che potevano utilizzare nello scambio perché non erano ritenuti degni di utilizzare il denaro reale. 

Quando nel 1863 anche in olanda la schiavitù venne abolita, in segno di emancipazione le persone finalmente libere buttarono tutte le perle in acqua come rifiuto del sistema coloniale. Queste perline blu continuano ad essere ritrovate al largo della costa e pescate in mare da subacquei e turisti.

Le settantasette didascalie aggiunte nell’allestimento delle sale sono ora esposte parallelamente alle didascalie originali e sono state raccolte in un booklet disponibile online.

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Un esempio: la nuova didascalia aggiunta a

Still Life with a Turkey Pie
Pieter Claesz, 1627

SPICES

The Flemish painter Pieter Claesz was just one of many artists who emigrated to the Northern Netherlands in the beginning of the 17th century. This table abounds with luxurious products, among them Asian objects.
Especially eye-catching are the porcelain plate and the nautilus shell. Even in unexpected objects, the presence of Asia is implicit – for instance in savoury pies, which contain ingredients such as cinnamon, mace, cloves and ginger.

& SLAVERY

The spices in these pies were often obtained by the Dutch East India Company (VOC) through violence and slavery. Cloves came from Ambon, one of the Moluccan islands, which was conquered by the VOC in 1605. The Ambonese had to harvest cloves alongside workers enslaved by the VOC. Nutmeg came from the Banda Islands (south of Ambon), which were taken by force in 1621. Enslaved people had to pick the nutmeg seeds on plantations and strip off their covering (aril).

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